Le donne che si arrabbiano non fanno carriera. Gli uomini sì.

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L’ira è per la tradizione cattolica uno dei vizi capitali, ma secondo uno studio condotto da Victoria Brescoll dell’ Università di Yale, le donne che se ne lasciano travolgere vengono giudicate più severamente di quanto accada agli uomini.
Questi ultimi possono arrivare persino a suscitare ammirazione quando si arrabbiano, in virtù di un meccanismo psicologico per cui se un uomo si permette di arrabbiarsi è evidentemente legittimato a farlo dalla sua posizione dominante. Le donne invece vengono giudicate come in possesso di limitata capacità di autocontrollo e scarsa competenza. L’esperimento è consistito nel far visionare a un gruppo misto di persone due video che rappresentavano un colloquio di lavoro in cui un candidato, uomo o donna, veniva ascoltato a fini di assunzione.
I due video differivano fra loro in questo: nel primo il candidato alla selezione confessava la sua rabbia per aver perso un cliente a causa di una defezione di un collega, nell’altro lo stesso candidato riferiva il medesimo episodio, ma confessando di essere triste e dispiaciuto per l’accaduto. I partecipanti allo studio, dopo aver visto il video, dovevano esprimere una valutazione del candidato e attribuirgli un possibile stipendio.
Messe in ordine le valutazioni espresse è emerso che il candidato giudicato meglio e meglio “pagato” era il candidato di sesso maschile che aveva confessato la sua rabbia, seguito dal candidato di sesso femminile che aveva confessato la sua tristezza. Ultimo e ben distanziato il candidato di sesso femminile che aveva espresso la sua rabbia. La rabbia dunque non giova all’immagine delle donne sui luoghi di lavoro, perché conferma probabilmente alcuni stereotipi di “isterismo” abbastanza radicati nell’immaginario collettivo. Un’altra battaglia per il gentil sesso sul piano del riconoscimento personale: dover assumere atteggiamenti di imperturbabile ascetismo per essere ben giudicato,  nelle stesse circostanze in cui a un uomo si consente (e si premia) una legittima sfuriata. C’est la vie.

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